L’Africa è un leone

, 16 giugno 2010

I primi quattro giorni di Sudafrica mi hanno fatto intuire quante sfumature e fragilità, passioni e contraddizioni innervino la struttura di questo Paese. Il solo passaggio dalla ruvida Johannesburg alla città-mosaico di Cape Town mostra due universi fra loro molto distanti.

Le bandiere nazionali in questi giorni si perdono a vista d’occhio, tanto a Johannesburg come a Cape Town, di plastica, di stoffa, dipinte sui visi dei ragazzi più giovani, come un bacio di riconoscimento sulla guancia. La festa è iniziata e sono soprattutto le persone di colore della classe media a farne da cassa di risonanza, perché l’occasione dei Mondiali è, a quanto mi hanno spiegato alcuni di loro, semplicemente unica: ha portato lavoro, innanzitutto, e ha permesso di aprire il Sudafrica al mondo. Il tempo dirà quanto di concreto c’è nell’entusiasmo della gente.

La meraviglia e la ferocia di questo Paese me l’ha mostrata, in un solo giorno, Johannesburg.

La visita al Lions Park, quarantacinque minuti fuori città, è stata quasi un safari. Dimenticatevi gli zoo: lì un guardiano tiene d’occhio dieci leonesse usando un bastone di legno, poco altro. I leoni sono animali placidi e impressionanti, docili alla vista, eppure spaventosi. Emanano un odore pungente. Con un salto annoiato hanno mangiato la piccola bandiera che sventolava appesa sulla portiera dell’auto. I cuccioli graffiano le mani; hanno un pelo ruvido che si fa accarezzare solo se si usa decisione e mano ferma, e degli occhi che ti mangiano, o ti hanno già mangiato. Sono meraviglia e ferocia, tutte mescolate.

Nello stesso giorno, poche ore dopo, ho visto scoppiarmi in faccia la ferocia degli uomini. A guardare me e i miei compagni di viaggio c’era il paesaggio dell’ex miniere d’oro; più in là i leoni, poi una township di collare a Jo-Burg. Un piccolo pretesto (una precedenza non data su una strada vuota) e l’automobile su cui viaggiavamo è stata bloccata da un’altra; tolte le chiavi, sberle all’amica autista, urla, rabbia, tantissima, ingiustificata. Improvvisamente siamo stati schiacciati dalla realtà di un Paese che è ancora evidentemente difficile.

Ne siamo usciti bene, nonostante le premesse violente. Ci siamo ripresi le chiavi che ci avevano staccato dal cruscotto (la nostra autista è riuscita a far capire che si era trattato di “un disguido”) e siamo andati via. Intorno ragazzini giunti a vedere quella rissa, senza capo né coda, nata senza un motivo e continuata anche dopo la nostra ripartenza, a catena, in una inspiegabile logica a catena. Ho visto la rabbia sul viso di quelle donne scese dall’auto a inveire contro di noi, una rabbia feroce. Forse che nell’auto ci fossero due bianchi (io e l’amica Madlen) non è stato d’aiuto. “Ci sono persone che non riescono a lasciare andare il passato”, ci ha spiegato l’autista, poi, una volta lontani. Forse è stata un po’ anche colpa nostra. Noi coi nostri laptop, loro con un bastone di ferro a gridare la rabbia di aver perso – così hanno detto – un cugino in un incidente, la mattina prima.

Il Sudafrica mi sembra un Paese incredibile. I sudafricani generosi e amabili, in genere: ci stanno aiutando in qualsiasi modo immaginabile. Ma l’Africa è fatta anche di vulnerabilità e di ferocia, che scoppia senza preannunciarsi. Il leone ti guarda e ti lascia passare, o magari ti mangia la testa. L’Africa è un leone. Si fa amare e può fare paura.


Sono felice per il Sudafrica, perché nonostante tutto l’occasione sportiva che stanno vivendo gli può fare bene, dare uno sguardo sul futuro meno rabbioso. I problemi sono ancora tantissimi, ma le energie che si respirano innumerevoli. C’è voglia di essere un Paese nuovo, ma c’è la paura di ricadere nei solchi che la storia qui ha scavato profondi. Stiamo a vedere.

Ci sentiamo su Twitter, da Cape Town.