Luciano Rapotez a Radio Popolare

Chiediamo scusa a Luciano Rapotez con una legge contro la tortura

, 15 dicembre 2011
5

Qualche giorno fa, nel bar sotto Radio Popolare, ho conosciuto Luciano Rapotez, portavoce friulano ANPI, in visita a Milano per la proiezione di un documentario di cui è protagonista, con la regia di Sabrina Benussi.

Un partigiano si ascolterebbe per ore. Ma la storia di Luciano rimanda alla parola “resistenza” prima come attitudine caratteriale che come elemento storico. La sua vicenda biografica descrive una persona dal coraggio esemplare. Lui, che oggi conta 92 anni, me l’ha raccontata di fronte a un succo di frutta e a una macchina fotografica. L’ha fatto spontaneamente, non è servito chiedere. Vicende come la sua reclamano passaggi di testimonianza, e mi sono trovato lì, a prendere appunti.

Dalla storia bisogna partire. Quella personale di Luciano Rapotez, almeno negli anni della Seconda Guerra Mondiale e dei suoi tragici strascichi sul terreno nazionale, è intensa e dura, ma simile a quella di tanti suoi coetanei. Cresciuto a Muggia, Luciano aveva operato in marina e, dopo l’8 settembre 1943, era diventato partigiano sul Carso triestino. Da sempre filo comunista, ha combattuto fianco a fianco con i compagni triestini e anche slavi, accorsi a fare la Resistenza. “Aver combattuto in Friuli dopo l‘8 settembre – mi ha detto – è come dire di avere combattuto in Germania”.

La ricostruzione, che seguì, fu aspra. Nel 1955 Luciano Rapotez venne fermato da alcuni poliziotti con l’accusa di un omicidio avvenuto, nel 1946, sul Carso. “Mai commesso”. Ma Rapotez, le sue posizioni, la sua storia (e quel nome), lo resero un ideale capro espiatorio.

Luciano venne torturato (cinque giorni e notti di pestaggi e sevizie fisiche e psicologiche spaventose) e portato a confessare un reato che non aveva commesso. Tre anni di carcere. Poi arrivò un processo che lo assolse, per insufficienza di prove. Dopo tre anni, un secondo processo lo liberò definitivamente. La Cassazione confermò. Ma il passato rimase presente, macchia indelebile.

La vicenda rovinò anche il suo matrimonio, e lui emigrò vent’anni in Germania. Solo da lì ebbe inizio la sua battaglia per chiedere allo Stato italiano le scuse e un risarcimento per quanto successo. Un caso da impugnare, per non continuare a doversi raccontare altre simili storie italiane.

Luciano Rapotez ha posto domande a tutti, spesso inevase da ministri e presidenti. Ha scritto molto. Ha fatto, del riconoscimento del reato di tortura in Italia, uno dei suoi fronti di inesauribile lotta civica. È espertissimo. Un libro del 1985 ricostruisce la sua vicenda, “Il caso Rapotez”: la prima edizione finì subito, “le copie della seconda – mi ha detto – vennero comprate tutte dal ministero dell’Interno”. In ogni caso, sia vero o meno, la sua battaglia è divenuta un simbolo.

A 92 anni non molla, anche se l’età lo richiederebbe. Al di là della sua vicenda processuale (“28 anni di processi…”) e delle inconsistenti risposte da parte delle autorità (“Ma i ministri li abbiamo fatti noi, io insisto, e la Costituzione è il mio riferimento…”), credo che il grande lascito di questo signore sia la denuncia del vuoto giuridico che lo Stato italiano continua a non sanare quando, in un contesto in cui emergono ancora episodi di tortura (il più clamoroso ha segnato il Paese, dieci anni fa: Genova G8 2001, scuola Diaz), non accoglie una legge specifica contro questo crimine intollerabile. Il disegno di legge è passato in Senato, per poi arenarsi: non ha mai avuto l’approvazione del Parlamento. Su questo anche organizzazioni come Amnesty International (leggete il rapporto 2011 sul nostro Paese) sono sul piede di guerra, da tempo. Nel maggio scorso il governo Berlusconi ha rifiutato di proseguire quel lavoro.

Credo che il governo Monti, da cui ci si aspettano scelte rigorose con l’obiettivo di sanare i deficit economici, amministrativi e progettuali del Paese dopo anni di sciopero del buon senso, dovrebbe lavorare per introdurre al più presto il reato di tortura nella legislazione nazionale. Chiediamo scusa a Luciano Rapotez col diritto.

[Foto: Luciano Rapotez e l’assessore di Milano Lucia Castellano]