Pranzo in Piazza Castello, aprile 2015

Il volante, la lavanderia o il giardino sotto casa. Milanesi alla prova sharing economy

, 3 febbraio 2016
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Milano, si dice oggi, è una delle capitali della sharing economy. Regina in Italia, competitiva in Europa. Ho provato a mappare le diverse opportunità e sperimentazioni che si incontrano nella nostra città grazie alle pratiche di condivisione di beni materiali, servizi o conoscenze, percorsi che spesso seguono obiettivi diversi: economici, sociali, ecologici o politici. Tracciare un punto penso sia utile, anche, per immaginare quali possano essere i passi da compiere da qui in avanti, in un fase in cui la città, con le elezioni in vista, si interroga su cosa fare da grande. I principi della sharing economy possono muoverci verso un futuro metropolitano più cooperativo, più facile, più sostenibile, più equo, più intelligente?

Non sbaglia il Guardian quando puntualizza come il termine “sharing economy” sia oggi in molti casi abusato, un ombrello sotto cui far rientrare servizi e aziende di ogni genere, che spesso hanno poco a che fare con i principi della condivisione. A fronte di grandi aziende che da modelli di servizi in sharing ricavano profitti secondo tradizionali meccanismi del capitale ha perso forse forza la sua accezione di nuova economia, alternativa a un sistema consumistico, a pratiche di monopolio. È altrettanto evidente che questo da un lato non nega un effettivo cambio nelle abitudini quotidiane delle persone, con un passaggio di paradigma dal possesso all’accesso; dall’altro che, sotto il cappello della collaborazione e dell’economia della condivisione, co-adiuvata dalla tecnologia e dalle nuove piattaforme, si stanno sviluppando stili di vita basati su premesse diverse, più consapevoli. Lo stesso Guardian parla, in uno dei pezzi più condivisi del 2015, di fine del capitalismo così come lo abbiamo conosciuto. E questo traccia l’urgenza di policy pubbliche all’altezza dei mutamenti economici e sociali del nostro tempo. Sul tema, il Comune di Milano ha approvato nel 2014 delle “Linee di indirizzo per promuovere e governare lo sviluppo di iniziative di economia della condivisione e collaborazione” e ha istituito un albo degli operatori e degli esperti del settore, avviando anche filoni di lavoro specifici con gli stakeholder dell’ambito come Airbnb e individuando in vicolo Calusca 10 un primo microdistretto dell’economia condivisa dove iniziare a generare cultura e confronto sul tema. Altre città come Bologna hanno avanzato proposte interessanti; con il suo Regolamento dei Beni Comuni, che insiste sull’idea di un patto di collaborazione con i cittadini, la città emiliana ha fatto anche il passo di allargare la riflessione e affrontare con un regolamento il tema dell’Amministrazione condivisa dei beni, forte della convinzione che una responsabilità diffusa fra i cittadini possa avere impatti positivi sulla società. Per le politica la sfida è ampia e aperta, trainata da una nuova classe dirigente che dall’universo sharing economy sta emergendo con forza, portatrice di esigenze economiche ma anche, sono convinto, di un nuovo patrimonio valoriale.

Non sono un sociologo: se siete interessati ad approfondire lo scenario delle piattaforme italiane, i loro pubblici e i loro percorsi vi consiglio di consultare la ricerca curata da Collaboriamo, presentata nei mesi scorsi a Sharitaly, uno dei cinque appuntamenti della prima Collaborative Week milanese, o di fare riferimento alle ricerche di Ivana Pais, che da tempo di occupa di questi temi. Il mio è, invece, un puntare la lente di ingrandimento su alcuni fenomeni in atto nel tessuto umano cittadino. Quali sono le nuove abitudini dei milanesi e quali quelle che potrebbero presto diventarlo?

Rispondo toccando cinque ambiti: abitare, mangiare, muoversi, lavorare, conoscere.


ABITARE

Quello della casa è uno degli ambiti di trasformazione per me più interessanti, perché va a incidere con il più intimo quotidiano di tutti ed è uno dei temi centrali per il futuro di Milano.

Il co-housing, che combina l’autonomia dell’abitazione privata con i vantaggi di servizi, risorse e spazi condivisi, è arrivato in Italia in ritardo rispetto ad altri Paesi europei. I primi esempi hanno visto la luce in Scandinavia negli anni Sessanta del secolo scorso. A Milano le esperienze di co-housing si stanno diffondendo in questi anni. Precedente importante è stato quello, tuttora attivo, del condominio solidale di Villapizzone, creato nell’ex-villa Radice Fossati dai coniugi Volpi nel 1978 e promosso dall’associazione cattolica “Comunità e famiglia”. Il quadro che si va formando oggi, però, è molto composito. C’è il progetto Base Gaia, 1250 mq affacciati sul Parco Lambro, in via Crescenzago, che sta muovendo passi decisivi: l’iniziativa parte totalmente dal basso, unica nel suo genere, da un nucleo di una decina di famiglie desiderose di realizzare il sogno di un vivere condiviso, basato su principi di sostenibilità, economicità, socialità e solidarietà, come scrivono nella loro presentazione. Il progetto, lanciato agli ultimi ExperimentDays, rappresenta un primo caso concreto su cui anche le norme edizilie possono appoggiarsi per regolamentare a pieno il cohousing a Milano, realtà già prevista dal PGT. Chi si muove almeno dal 2007 su questi temi è la società Newcoh, che ha sviluppato in città diversi progetti, come l’Urban Village di Bovisa, dove trentadue famiglie condividono lavanderia, zona stiro, hobby room, piscina, zona barbecue e uno statuto per la gestione del condominio, e Cosycoh, primo progetto di cohousing in affitto creato in Italia, dedicato ai giovani, in zona Ripamonti. A Chiaravalle, quartiere dalle molte potenzialità di cui ho già scritto, cresce in questi mesi il progetto cohousing di Cascina Gerola: i lavori, che partiranno nei prossimi mesi, prevedono il recupero dei resti dell’edificio risalente al ‘600, e l’uso di sistemi di raffrescamento e riscaldamento sostenuti dallo sfruttamento delle acque reflue provenienti dal depuratore di Nosedo. Il villaggio, grande 25.000 mq, sarà pronto entro la fine del 2017. Per la quarantina di alloggi disponibili sono già arrivate 600 prenotazioni. Un progetto di nuova edificazione, su un’area dismessa, sarà invece quello di via Melchiorre Gioia 181, vicino alla Martesana, pronto a primavera 2017, sul modello già sperimentato in Bovisa. E si sta immaginando un nuovo cohousing anche in Corso XXII Marzo.

Cohousing Chiaravalle

Il progetto del cohousing di Chiaravalle

Non c’è solo il cohousing nella galassia dell’abitare condiviso milanese. Il Comune ha avviato due sperimentazioni di nuovo welfare che fanno leva sul condividere fra vicini di casa e altre sono in arrivo. La prima è la badante di condominio, una figura amica, di aiuto, che persone anziane dello stesso complesso abitativo non bisognose di assistenza domiciliare continuativa possono condividere, con il duplice vantaggio di ridurre la spesa pubblica per il servizio e di sconfiggere la solitudine dando fiducia a una persona riconosciuta da tutto il vicinato. La badante di condominio è già attiva dalla scorsa estate in una decina di stabili e si stanno ora monitorando i primi risultati del servizio. La seconda è l’Ospitalità solidale, con cui sono stati affidati 24 appartamenti sottosoglia a giovani che, prestando dieci ore mensili del proprio tempo libero a progetti di vicinato solidale, possono averli a un prezzo molto agevolato. A proposito di nuovo welfare: oltre al pubblico, anche terzo settore e imprese sociali milanesi hanno cominciato a provare, con grande passione, a iniettare i principi della sharing economy nel proprio lavoro, come mi raccontava Silvia Bartellini della Cordata qualche tempo fa.

Le social street sono un altro pezzo di questo modo alternativo di vivere lo spazio dell’abitare milanese. Ho già avuto modo di parlarne da queste parti e recentemente anche Gli Stati Generali ha affrontato il tema, oggetto di ricerche universitarie. Mi limiterò a ricordare che a Milano le social street esistenti sono 69; le più attive e numerose si contano però sulle dita di due mani: e non è poca cosa. Questi gruppi informali sono dediti ad azioni di comunità e incontro come cene, feste di strada, visite guidate, giochi, aperitivi, a pratiche di condivisione come il book crossing o il social cooking o al recupero dell’identità dei quartieri (come fa il bel progetto https://www.facebook.com/mappadellememorie). Purtroppo, in taluni casi, i gruppi Facebook da cui nascono si sono trasformati in canali di sfogo e propaganda politica, snaturando il senso nativo della social street. In altri, penso alle realtà di via Maiocchi e via Morgagni, sono nate delle comunità di cittadini attivi (“un senso di famiglia allargata”) che vogliono davvero incidere in positivo nei processi pubblici, come successo per le gare di solidarietà verso i senzatetto o per manifestazioni di creatività urbana come il festival 100in1giorno Milano, che sottolineano l’eterogeneità di approcci e visioni che attraversano questi presidi iperlocali della città.

In dialogo fra l’abitare individuale e quello collettivo degli spazi stanno, secondo me, i giardini condivisi. Immaginati da realtà pioniere come Isola Pepe Verde e il Giardino Nascosto del Comitato Ponti, sono stati spinti nel 2012 da una delibera del Comune che auspicava la realizzazione di comunità di autogestione degli spazi verdi abbandonati. Lo scorso anno la Pubblica Amministrazione ha fatto di più, prevedendo di aiutare chi si impegna nella realizzazione di un giardino condiviso attraverso lavori di preparazione e di assistenza con la figura del Giardiniere Condotto. A Milano oggi si contano almeno 12 di queste realtà riconosciute e cresce la voglia di prendersi cura del verde pubblico. Realtà interessanti sono nate in Sarpi con i Giardini in Transito, al Parco Segantini, in via Scaldasole, a Chiaravalle e in altri quartieri. E l’idea di recuperare aree pubbliche abbandonate o degradate grazie al contributo diretto dei cittadini si è esteso dall’ambito del verde agli altri: così in via Morosini una delibera del Comune, l’intervento di associazioni e Consiglio di Zona, il sostegno di uno sponsor e il tocco di un writer di fama internazionale hanno fatto sorgere il primo “spazio condiviso” della città, il Giardino delle Culture. E c’è stata un’altra esperienza, nell’intenso anno milanese dell’Esposizione Universale, che ha segnato una strada sui nuovi modi di condividere lo spazio pubblico: è Nevicata14, il progetto di sistemazione di Piazza Castello pedonale, che ha arredato quella che fino a che pochi mesi prima era un pezzo di città dominato dalle auto, definendo un regolamento d’uso condiviso degli spazi, dotando la piazza di un sito Internet e di un calendario condiviso, permettendo alle persone di prendere parte a un processo di trasformazione di un luogo di tutti. Qui si è realizzato anche uno dei momenti che forse in modo più plastico hanno mostrato il rinnovato rapporto dei milanesi con lo spazio pubblico: l’impressionante cena in bianco dell’estate 2015, a mio avviso uno dei più riusciti flash mob nella storia della città totalmente organizzato da una comunità collaborativa informale.

La cena in bianco

Estate 2015. La cena in bianco, “Cena con me”, in Piazza Castello

MANGIARE

Condividere attorno alla tavola è il più naturale dei gesti. Diverse ricerche spiegano che quando siamo in compagnia mangiamo di più. A Milano, attorno al cibo, sono nati percorsi che prendono energia da principi e processi di collaborazione.

Penso ai Gruppi d’Acquisto Solidale, che, pionieri negli anni ’90, hanno preso definitivamente il volo attorno al 2007. Oggi in città i più significativi superano le 80 unità (molto di più, centinaia, se si considera l’intera Città Metropolitana: http://www.gasmilano.org) e basano la loro sostenibilità non solo sulla divisione delle spese fra le famiglie aderenti, ma anche sull’assegnazione di compiti di gestione condivisa del Gruppo.

Rebecca Zaccarini e Devi Krueger, invece, sono due studentesse che, rimboccatesi le maniche, hanno avviato un progetto contro lo spreco alimentare nei mercati rionali, “Recup”. Ogni sabato pomeriggio scorrazzano con altri studenti e volontari fra i banchi del mercato di viale Papiniano, verso l’orario di chiusura, per recuperare il cibo che altrimenti verrebbe gettato, per motivazioni estetiche o economiche, e lo ridistribuiscono tra le persone che ne hanno bisogno. Tutti prendono parte a questo recupero condiviso, commercianti, volontari e utenti finali dei prodotti: un gesto tanto semplice non solo rende più sostenibili i consumi, ma restituisce dignità a chi cerca il cibo in questo modo e sviluppa relazioni interculturali e intergenerazionali. Ascoltare il loro entusiasmo durante Feed the 5000, il pranzo collettivo realizzato lo scorso ottobre in Piazza Castello, con ingredienti recuperati da mercati, supermarket e mense, è stato certamente utile a tanti milanesi. Evitare gli sprechi attraverso la condivisione è anche l’obiettivo di idee imprenditoriali, nate a Milano, come MyFoody, che individua i prodotti in giacenza presso i magazzini dei negozi che rischiano di non essere più vendibili, e Breading, app per raccogliere il pane rimasto invenduto in bar e panetterie e consegnarlo a fine giornata ad associazioni di volontariato.

La maggiore consapevolezza circa ciò che mangiamo ha portato tante persone a voler ritornare ad affondare le mani nella terra, ritrovando usi e sapori di un tempo. C’è chi lo fa nel terrazzo di casa, c’è chi, sempre più, lo fa negli orti comunitari. Il più bello, fra quelli che ho potuto visitare, è Orto Comune Niguarda, avviato a fine 2014 ai confini del Parco Nord e già rigoglioso nel suo primo ciclo stagionale. Sono più di 70 i sostenitori del progetto, 30 gli attivi che lo curano, con figure molto diverse fra loro – l’ingegnere, l’argonomo, la giornalista, il pensionato – e un modello di gestione condiviso che funziona, una piccola comunità in un quartiere da sempre innervato da associazioni e comitati. E se a Orto Comune Niguarda si fanno già raccolti cospicui, non mancano anche gli esperimenti più simbolici, come Orto Novembre, il piccolo orto spontaneo curato dalla social street di via Maiocchi in un fazzoletto di terra fra i condominii, frutto di un desiderio comune di curare insieme la città.

Orto Comune Niguarda

Cittadini al lavoro nell’orto comunitario di Niguarda, a pochi passi dal Parco Nord di Milano

Milano si è riscoperta, in questi anni, anche come una capitale del cibo di qualità e anche su questo la disintermediazione nei processi di consumo e il desiderio di lavorare su modelli basati sulla condivisione sta dettando una strada che è tutta nuova, una sfida per il mercato, per la Pubblica Amministrazione, per il legislatore. Il social eating e gli home restaurant sono sempre più diffusi, perché diventarlo o interessarsi del fenomeno è facilissimo grazie a diverse piattaforme attive come Vizeat o Gnammo. Secondo un report realizzato da CST – Centro Studi Turistici per Fiepet Confesercenti si contano più di 7mila cuochi social attivi in Italia, con un trend in crescita. L’offerta è soprattutto a Milano, seguono Roma e Torino. La nostra è la città in cui risiede la maggior parte dei cuochi social, con una quota pari all’8,4% del totale. L’incasso medio stimato per singolo evento è pari a 194,00 euro. E anche su questo a parer mio Milano si sta dimostrando capace di fare un passo prima degli altri. Uno dei più noti e di maggior successo home restaurant italiani è il milanese Ma’ Hidden Kitchen Club, che accanto al cibo propone attività culturali; e qui hanno messo radici progetti come Piacere Milano che, pur non avendo alcun tipo di risvolto commerciale, esplicita un cambiamento culturale e crea un ponte molto intelligente fra cibo, nuove forme di turismo e rete, cercando di mettere a sistema una rinnovata prospettiva di benessere e socialità diffusi che di sfondo ha l’ottimismo della condivisione.

MUOVERSI

Condividere un mezzo di trasporto è probabilmente la cosa a cui la maggior parte dei milanesi pensa quando si parla di sharing economy. I numeri confermano come queste nuove forme di mobilità abbiano già inciso sulle abitudini cittadine e siano indirizzate verso crescite esponenziali. A Milano oggi ci sono circa duemila automobili in condivisione, con cinque operatori attivi: GuidaMi, E-Vai, Car2Go, Enjoy, e Sharengo, l’unico al momento a possedere una flotta 100% elettrica (un sesto, Twist, ha interrotto il servizio alcuni mesi fa dopo un avvio poco performante). Gli iscritti totali sono 340.000. Mediamente le auto vengono utilizzate per 6 volte al giorno e ogni noleggio mediamente dura 20 minuti in movimento, percorrendo circa 6 km. Le corse totali sono 8000 al giorno. Il 78% degli iscritti ai servizi di car sharing è iscritto ad un solo gestore, il 17% è iscritto a due gestori ed il 5% è iscritto a tre gestori. Giornalmente l’insieme delle auto in car sharing vengono utilizzate per 267.135 volte, percorrendo 60.947 Km, pari a 1 volta e mezza la circonferenza della terra. Altri dati sono disponibili sul sito di Amat. Il boom del car sharing a Milano ha le sue radici nel percorso di liberalizzazione del settore incentivato dal Comune a partire dal 2013. L’obiettivo di portare i milanesi a rinunciare (almeno) alla seconda auto sta sortendo i primi effetti: dati Aci dicono che nel capoluogo lombardo nel 2014 sono state immatricolate 15mila auto in meno rispetto al 2013, mentre a livello nazionale le immatricolazioni continuavano a crescere. Dal 2011 sono 38mila auto in meno: è il 5,2% in tre anni. Così la mobilità condivisa sta contribuendo a rendere meno congestionata e più sostenibile la città.

Nel 2015 anche il bike sharing ha toccato numeri importanti: il servizio, che ha finalmente raggiunto anche quartieri più periferici come Bicocca, Bovisa e Dergano e si è sdoppiato in tradizionale (3650 mezzi) ed elettrico (1000 mezzi), ha visto raddoppiare gli abbonamenti (+53%) rispetto al 2014. Sono 45mila i milanesi abbonati BikeMi a tempo pieno. E nei primi 10 giorni di gennaio 2016 sono già stati acquistati quasi 900 abbonamenti. Dal 2009, anno di avvio dello sharing della bicicletta, a oggi (con circa 270 stazioni attive) il bike sharing ha fatto risparmiare a Milano 4.124.683 kg di Co2. Dallo scorso anno è stato lanciato anche lo sperimentale scooter sharing, firmato da Eni-Enjoy.

Ci sono ancora altri modi di muoversi condividendo. Su BlaBlaBla Car, il sito dell’azienda che ha fatto del car pooling la sua missione, ogni domenica si possono osservare, in media, 2000 passaggi da Milano e 2000 per Milano: insomma decine di migliaia di persone che gravitano attorno a Milano condividono ogni weekend un viaggio in auto (e quindi le loro spese e il loro tempo) con altri viaggiatori. E non si condividono solo i km: nella mia ultima esperienza BlaBlaBla Car da Padova in viaggio verso Milano ho conosciuto un circense equilibrista, una food stylist amica di amici e una giovanissima praticante avvocato. Bisognerebbe, in certi casi, iniziare a parlare di story-sharing, perché di fatto chi sceglie Bla Bla Bla Car sa anche che andrà a condividere qualcosa di sè con altri sconosciuti (o conosciuti) viaggiatori e il valore di questo scambio meriterebbe di essere misurato come un dato al pari di altri nell’economia della condivisione.

Infine, in una città che si sta interrogando in queste settimane su come dovranno essere le proprie strade nei prossimi dieci anni, trovando soluzioni per i cronici problemi di inquinamento e di sicurezza, si comincia – ma a mio avviso si dovrebbe farlo di più – a ragionare partendo dal concetto di shared-space, un approccio del design urbano che vuole ridurre la segregazione di bici e pedoni e uniformare la sede stradale per renderla sicura per tutti attraverso una condivisa assunzione di responsabilità. Esperienze come quella tutta milanese di Massa Marmocchi pongono l’urgenza di quanto sia necessario un nuovo patto urbano fra utenti della strada e interrogano i progettisti delle città sulla necessità di un approccio che parta dall’autentica condivisione degli spazi.

LAVORARE

Il coworking è l’espressione più felice e visibile dell’applicazione del principio della condivisione nei luoghi del lavoro. Nati per i freelence, oggi gli spazi di coworking non sono però soltanto scrivanie fisiche da affittare, ma aggregatori di professionalità di settori diversi e incubatori d’impresa per chi ha buone idee e vuole lanciarsi nel mercato. In questo senso lavorano reti di coworking come Impact Hub e TAG, che hanno a Milano alcune delle loro più significative sedi. In particolare Talent Garden, a oggi la rete più estesa in Europa, ha inaugurato lo scorso anno un vero e proprio terminal dell’innovazione (8500 metri quadrati, uno dei più grandi d’Europa) nell’area Lodi-Ripamonti, convertendo la sede di una storica tipografia (dove, nel 1842, si era stampata la prima edizione dei “Promessi Sposi”, mi ha spiegato qualche mese fa il fondatore, Davide Dattoli) in un polo di startup e servizi. Lo stesso progetto architettonico di TAG Calabiana, firmato dallo studio del prof. del MIT Carlo Ratti, ha cercato di re-inventare uno spazio di lavoro dove contaminare strumenti e competenze secondo un approccio collaborativo. TAG Calabiana può ospitare fino a 400 professionisti ed è dotato di tre spazi eventi con una capienza totale di oltre 1000 persone.

TAG Calabiana

TAG Calabiana (foto http://milano-calabiana.talentgarden.org)

Non esistono solo i grandi spazi: in città si diramano oltre 50 coworking, spesso in direttrici periferiche o di riconversione urbana, e non facile trovare dei tratti comuni a tutti, sintomo di una positiva fase di sperimentazione. Ci sono realtà come Piano C, pensate per un pubblico più femminile e con servizi tagliati su chi ha necessità di un approccio conciliante fra lavoro e famiglia; Avanzi, che condivide lo spazio con un bike bar; e ci sono realtà pioniere come Cowo che ha casa a Lambrate e che è diventata anche un presidio di quartiere. Non c’è poi nuovo spazio, fra quelli più ambiziosi nati negli ultimi due anni, spesso ibridi metropolitani come la libreria Open, il nuovo polo digital-culturale Santeria Social Club o persino alcune cascine recuperate che non abbiano previsto al loro interno fin dalla loro nascita uno spazio adibito al lavoro condiviso. Il Comune ha lavorato negli ultimi anni per mappare questi luoghi e sostenerli, creando un albo dei coworking certificati (i criteri: iscrizione al Registro delle Imprese, numero di postazioni lavorative  non inferiore a 10, sistema informativo comune con connettività a banda larga o wi-fi, spazi e attrezzature comuni accessibili ai fruitori come sala meeting/ formazione, centralino, vigilanza, reception, ecc) e dei voucher per i giovani professionisti che li frequentano. Perché lo ha fatto? Per sostenere la competività e il mercato, superando la crisi in una prospettiva cooperativa e resiliente. Mi piace far rientrare in questo ambito quelli che possiamo chiamare i coworking del volontariato, le Case delle Associazioni, ormai sei, messe a disposizione dal Comune per le associazioni e i gruppi informali che agiscono nei quartieri di Milano: si dividono scrivanie, sale riunioni, energie, interventi sul territorio, brainstorming. Una decina sono ormai anche i fab lab, le officine degli artigiani digitali, dove è possibile mescolare le nuove tecnologie ai mestieri più tradizionali e dove alla base, per le centinaia di iscritti, stanno le regole, più o meno scritte, dello scambio di idee, di strumenti e di strategie, in un processo di formazione costante, da bottega, meticcio.

Una mappa di coworking e fablab è stata realizzata poche settimane in occasione di StartupItalia: è un’altra lente per capire la Milano che cambia e compete con le capitali europee sul fronte delle nuove forme di lavoro.

CONOSCERE

Da un anno, nel quartiere Rogoredo-Santa Giulia, è stato avviato con successo il progetto Biblioshare, una piattaforma di condivisione delle letture che ogni abitante del quartiere può offrire al proprio vicino di casa. Gli utenti devono registrarsi e per usufruire dei libri devono a loro volta mettere a disposizione degli altri i propri. A Biblioshare non hanno aderito solo singoli cittadini, ma anche scuole (come l’Istituto Comprensivo Sottocorno di via Monte Piana e di via Monte Popera, con 4100 titoli) e condomini speciali, come quello di via Rembrandt 12, dove trova casa il primo esempio di biblioteca condominiale, per un totale a oggi di oltre 12.000 libri “biblioshared”. Il progetto è particolarmente efficace perché intercetta un fenomeno fluido come il bookcrossing e lo rende però sistema, legato fortemente al territorio.

La biblioteca condominiale di via Rembrandt 12

La biblioteca condominiale Rembrandt (foto https://www.facebook.com/BibliotecaRembrandt12)

È un bell’esempio di come anche il nostro modo di conoscere e apprendere stia cambiando grazie a pratiche di condivisione anche in un settore lento come quello librario.

Il diffondersi, poi, di piattaforme di sharing culturale come Open Culture Atlas, attraverso cui è possibile generare comunità e mappe informali di cultura partecipata, come TimeRepublik, che permette di scambiare competenze donando il tempo libero a disposizione, o l’ambizioso Oil Project, scuola gratuita online lanciata due anni fa da un gruppo di nove ragazzi milanesi guidati da Marco De Rossi, danno la misura di come la nostra città sia oggi un crocevia di esperimenti collaborativi estremamente vivace.

Oltre le idee, d’impresa o meno, più originali e le note di costume metropolitano raccolte in questo post (di altre non ho spazio di parlare, ma sapete che c’è anche il Pet Sharing?), è chiaro che per comprendere pienamente gli impatti positivi che questi fenomeni possono avere sulla città, non solo economici e non solo ambientali, ci vorrà tempo. Ma i primi segnali ci sono.

Il disegno della Milano 2021 che vorremmo deve, dunque, partire dalla consapevolezza che i suoi cittadini si stanno abituando facilmente a processi nei quali gli ingredienti dello scambio, della condivisione, della collaborazione e, in senso più esteso, della partecipazione (pensiamo al successo del primo esperimento milanese di Bilancio partecipativo, un paio di mesi fa, o all’atteso, imminente, avvio del crowdfunding civico) sono imprescindibili, sempre più dati per assodati da quella minoranza di “early adopter” che per prima abbraccia le novità e poi le fa piacere a tutti. Perché i principi della sharing economy diventino sistema servirà una riflessione profonda fra tutti gli attori della città, per arrivare a un patto di fiducia che renda possibile un’altra economia. Fiducia: un bene comune.