La rivoluzione italiana che abbiamo iniziato a costruire

, 27 settembre 2011
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Mi sono sentito chiamato in causa dalla lettura di “The case for an Italian ribellion” di Luca De Biase. Credo che l’ex direttore di Nòva abbia trovato nel suo post parole per dare forma a un pensiero comune di molti noi giovani italiani, laureati, che ci interessiamo di innovazione, buona politica, ambiente, futuro, magari in lingua inglese o francese. Noi che quando sentiamo il nostro primo ministro parlare il più delle volte oramai ascoltiamo e pensiamo “è alla frutta, ora basta”.

Io ho ventisette anni e negli ultimi venti ho assistito, con crescente consapevolezza e senso di repulsione, al depauperamento del vocabolario umano e civile di questo Paese. Ho visto, con molti miei coetanei, l’asticella del buon senso abbassarsi, fino a toccare lo zero. I problemi reali dell’Italia sono cresciuti esponenzialmente mentre i falsi problemi riempivano l’agenda quotidiana. Questo è successo grazie a un lento corrodersi della classe politica, di quella imprenditoriale, del sistema informazione, dell’offerta culturale. Qualche giorno fa il nostro ministro dell’Istruzione e della Ricerca ci ha ricordato quanta impreparazione ci sia nel governo italiano. Da tempo mi chiedono, quando succede di essere all’estero o di conversare online con qualche contatto straniero, cosa aspetti l’Italia a cambiare marcia. Io, ultimamente – come mi è successo a Oslo – ho iniziato a dire che la marcia, a fatica, si è mossa e che non rinuncio a vedere un futuro migliore.

Capisco di sembrare ingenuo.

L’idea di una “Italian ribellion” è nell’aria da tempo. Timidi tentativi di contrasto pacifico ma fisico, in qualche caso irruento, si sono registrati a Milano e a Roma, senza alcun seguito. Credo siano da ricondursi a specifiche sensibilità, particolarmente vessate dalla crisi economica la cui gravità è d’altronde direttamente collegata all’azione dei governi Berlusconi e alla fragilità dell’opposizione. Penso che un profondo moto nazionale di pacifica ribellione democratica sia auspicabile: sarebbe fortemente liberatorio per gli italiani che di visione e di prospettiva e di unità hanno molta sete. Io stesso e i miei amici, per primi. Non è ancora successo e questo ha a che fare certamente anche con l’alto senso di responsabilità delle famiglie, uniche a tenere dritta la spina dorsale del Paese. Penso alla famiglia nel senso di nucleo sociale affettivo, non dandogli una connotazione cattolica, ma semplicemente culturale e storica. La società italiana è tendenzialmente conservatrice. In un momento di estrema fragilità come questo credo che tale caratteristica possa rappresentare persino una risorsa. Ma la presenza di una struttura che bilancia i moti più spontanei e irruenti non deve negare il sorgere di una rivoluzione del pensiero. Basta ragionare in termini gattopardiani.

Nella primavera scorsa ho visto la marcia iniziare a cambiare.

A Napoli, a Milano, innanzitutto, con la tornata elettorale, quelle percentuali inattese. In tutta Italia, con quei referendum che hanno chiaramente sancito un desiderio di nuove rotte. Con i movimenti in difesa della dignità femminile. Penso che una larga parte di giovani abbia individuato candidati credibili e cause importanti per cui spendersi, senza più resistenza. Abbiamo messo in moto piccole rivoluzioni democratiche. L’”Italian rebellion” potrebbe essere già questo: il ricostituirsi di un tessuto di attivismo civico, culturale, politico, qualcosa che è già partito dalle città e dall’incontro sul territorio, con un sostegno anche delle nuove tecnologie (una socialità ritrovata, come mi piace dire). È durissima. Ma stiamo andando bene. Questo settembre a Milano c’è stato un grande fiorire di iniziative belle e sane: come i dibattiti sull’antimafia, le rassegne di cinema, la crescita di interesse per le cascine e gli stili di vita sostenibili, gli incontri in piazza sull’arte contemporanea, sul lavoro che manca, sul futuro. Su Napoli ho sentito grandi cose. Si va piano – all’italiana – ma senza melodrammi, per una volta.

Noi giovani siamo all’altezza dei nostri desideri. Chi ci rappresenta lo capisca. La ribellione che ci interessa è quella democratica: è già una rivoluzione.