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L’Orfeo ed Euridice di Cèsar Brie a Campo Teatrale, a cinque anni dall’insegnamento di Beppino ed Eluana

, 9 febbraio 2014
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Sono trascorsi cinque anni dalla morte di Eluana Englaro. Già cinque. Ricordo il chiasso vergognoso di quelle giornate. Le parole di Gaetano Quagliarello, oggi ministro. Ho sempre provato infinita stima per il padre di Eluana, capace di affrontare diciassette anni di calvario per conquistare il diritto, per la figlia, all’autodeterminazione terapeutica. Ci sono promesse enormi che solo l’amore riesce a mantenere. Quando era cosciente Eluana aveva scelto ciò che riteneva giusto per se stessa. Dopo l’incidente che l’aveva condotta in uno stato vegetativo nessuno l’aveva voluta lasciar andare. È stato necessario l’intervento della magistratura; è servito il tormento pubblico di un uomo coraggioso, Beppino, per darle ascolto e trovare la strada per un diritto. La vittoria più amara, per un papà, di fronte a cui ci si dovrebbe interrogare sulla grandezza dell’amore e sulla bassezza di tante speculazioni politiche. L’hanno chiamato “assassino”. Era il 9 febbraio 2009.

Nel nostro Paese manca ancora oggi una legge sull’eutanasia. Del tema non si parla più, se non per ciò che cercano di fare i Comuni, come Milano, dove qualche mese fa è arrivato un Registro delle dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari e di fine vita. Segnali, nel mare. Della morte la nostra società non vuole parlare. In Italia l’attenzione dell’opinione pubblica si è appiattita negli ultimi decenni sull’apparenza e su analisi superficiali dei cambiamenti sociali, in fuga da temi come la qualità della vita, la vecchiaia e la decadenza, figuriamoci dalla fine estrema o dalle scelte attorno ad essa. Eppure la morte, nella sua assoluta incomprensibilità, è un tema semplice e concreto. Il silenzio di molta politica italiana sull’eutanasia è la migliore didascalia alla marea di parole che i pastoni dei telegiornali cucinano ogni sera, lasciandoci senza risposte, senza idee. E senza diritti.

Fuori dalla televisione, a teatro, qualcuno squarcia il velo sull’argomento. A Campo Teatrale, Milano, ha debuttato in questi giorni un “Orfeo ed Euridice” firmato Cèsar Brie. L’ho visto ieri. Per me è uno degli spettacoli più belli degli ultimi anni. Lucido e profondissimo. Il mito del cantore e della sposa perduta nell’Ade viene usato dal regista argentino come pretesto per raccontare la storia delle tante Eluana e dei tanti Beppino. In scena vi è un altro tipo di amore, quello di una coppia di giovani che si è scelta, si è amata così tanto da farci ridere con lei fin da primi minuti. I nostri Orfeo ed Euridice sono Giacomo (Ferraù) e Giulia (Viana), si sono conosciuti in Sicilia, hanno vissuto insieme, sono bellissimi. Si sono fatti una promessa: niente accanimento, se mai venisse a mancare la coscienza. E quando inevitabilmente succede, Orfeo è il solo a lottare per esaudire il desiderio di Euridice: “Lasciatemi andare”. Lo fa per diciassette anni, restando fedele alla promessa, osservando il tempo imbiancare i capelli suoi e della sua anima gemella, finché morte non li separi. È un dramma raccontato con una scenografia minimale, che pone in piena luce la delicatezza della regia e la piena consapevolezza dei protagonisti, come personaggi e come attori. Non c’è retorica, ma un misurato disegno dell’amore che incontra la morte. Non ci sono risposte. Questo spettacolo racconta delle promesse enormi che solo l’amore riesce a mantenere. E rilancia la domanda di un Paese più civile.